Peter Gabriel - peter gabriel (1977)

Date sfogo alla vostra arte letteraria commentando gli album piu' interessanti che avete ascoltato di recente.

Peter Gabriel - peter gabriel (1977)

Postby Phoberomys » 23 Jan 2010, 13:32

Uscito a ben tre anni di distanza da “The Lamb”, e a due dall’abbandono dei Genesis, il primo lavoro solista di Gabriel si presenta apparentemente diversissimo dalla musica del gruppo.
Dopo aver provato per qualche tempo con una band che includeva gli ex-compagni Rutherford e Phillips, il cantante decide di affidarsi ad un collaudato gruppo di sessionmen nordamericani capeggiati dal dispotico produttore Bob Ezrin, responsabile degli sferraglianti successi di Alice Cooper e successivamente dell’ambizioso “The Wall” dei Pink Floyd.
Lontana dalla colorata essenza progressive dei lavori di Paul Whitehead per i Genesis, la copertina si presenta minimale e inquietante, col volto di Gabriel che s’intravede solamente dietro il parabrezza bagnato di un’auto.
Nell’angolo in alto a sinistra, solo il nome “peter gabriel”, tutto in minuscolo, quasi un ulteriore antidoto alla grandeur teatrale del passato.
E nessun titolo.
“Moribund the Burgermeister” è forse posta strategicamente in apertura, perché già dal titolo sembra rifarsi a quella parte “medievaleggiante” dell’immaginario-Genesis che emergeva ad esempio da “Time Table” e “Dancing with the Moonlit Knight”.
Qui si narra di una strana epidemia che costringe le persone a comportamenti inconsulti e indomabili, refrattari a qualunque repressione, mentre la musica sottolinea le varie scene con fare melodrammaticamente schizofrenico.
I suoni, però, sono più duri, corposi, moderni, con il sintetizzatore di Larry Fast usato alternativamente in fase ritmica (all’inizio, con uno strambo andamento reggae) e per evidenziare i momenti più drammatici con accordi magniloquenti.
Ma già il brano successivo, “Solsbury Hill”, scelto come singolo, prende le distanze da ogni teatralità, poggiandosi su un ripetitivo arpeggio di chitarra acustica e una ritmica sì irregolare, ma alla fine semplice e monocorde.
Forse perché è il testo l’elemento più importante e significativo: dietro una facciata di metafore e similitudini, Gabriel abbozza una spiegazione della sua dipartita dai Genesis, mettendo in luce i rischi e le possibilità insiti in una scelta così brusca e dolorosa.
Gli anni trascorsi col gruppo sono rappresentati da una rotaia dalla direzione obbligata (“Though my life was in a rut”), da un macchinario dal quale disincagliarsi (“I walked right out of the machinery”), mentre il salto verso la carriera solista si incarna in un’aquila che si libra nella notte (“Eagle Flew Out of the Night”) e l’emozione del volo solitario fa battere il cuore (“My heart going boom boom boom”).
Con “Modern Love” si respira nuovamente aria di rock “tosto”, basato su riff taglienti di chitarra ritmica e un andamento che pare un incrocio tra Springsteen e i Rolling Stones.
Un bel brano da concerto e un’occasione per l’autore di ritornare alle metafore sessuali maschili di cui pullulava “The Lamb”: il “tergicristallo”, la “coda” il “numero” tagliato a Rael da Doktor Dyper si incrementano ora di un “ombrello telescopico”, presto affiancato dalle controparti femminili, “ostriche” e “calamite bollenti” - in un buffo tourbillon di rimandi a figure femminili mitiche o divenute tali per la loro sensualità o dissolutezza (Diana cacciatrice, Lady Godiva, la Gioconda).
Proseguendo con quell’altalena di emozioni che rimarrà la sua cifra stilistica peculiare fino ai nostri giorni, il cantante fa seguire ad un energico hard-rock una canzoncina arrangiata in stile “Barbershop Quartet”, genere in voga negli Stati Uniti di’inizio Novecento, con tanto di trombone suonato dal bassista Tony Levin: “Excuse Me”, testo del poeta Martin Hall, musica divertente ma non memorabile di Gabriel.
La successiva “Humdrum” prosegue con il cambio programmatico di atmosfere, ma raggiunge uno spessore artistico ben differente al quale contribuiscono gli arrangiamenti sontuosi, l’interpretazione vocale ispirata e l’epicità della melodia.
Come si dice nella canzone, “I suoni disegnano forme nell’aria” (“Songs forming shapes in the air”), in questo caso armoniche e arrotondate.
Spigolose e scabre, invece, nel brano successivo, un altro robusto rock duro intitolato “Slowburn”, veramente degno di Alice Cooper per la potenza dell’arrangiamento, ma tutto Gabriel nell’alternanza tra fasi urlate a gran voce e ripiegamenti più soffusi.
Si fanno strada nel testo i primi riferimenti a quell’incomunicabilità di coppia che troverà in futuro altri modi di emergere nella produzione artistica gabrieliana (“Words fell like hailstones” – “Le parole cadevano come grandine”; “You get cold, I get hot” – “Tu ti raffreddi, io mi riscaldo”).
Dopo una capatina nel blues più soffuso e indolente con “Waiting for the Big One”, degna di nota solamente per il testo beffardo e alcuni terrificanti giochi di parole, si ritorna in territorio hard-rock passando a “Down the Dolce Vita” , fragorosa e toniturante collezione di cori, archi, schitarrate al servizio delle prime gesta di “Mozo”, sorta di Rael vicario che rispunterà anch’esso più avanti.
La perla dell’album si fa attendere fino alla fine, ma quando arriva spazza via tutte le incertezze e le forzature che punteggiano il materiale precedente.
“Here Comes the Flood” parte con un delicato arpeggio di chitarra acustica sul quale si poggia la voce sognante dell’autore, che c’illustra una teoria tanto affascinante quanto onirica: visto che di notte le comuni onde radio aumentano d’intensità, non potrebbe avvenire lo stesso con i pensieri della gente?
E cosa accadrebbe se le persone fossero costrette ad abbandonare le ipocrisie quotidiane, esposte alla pubblica attenzione come in una casa di vetro?
Sopravvivrebbe solo chi fosse abituato all’onestà e alla sincerità, mentre i falsi e i doppiogiochisti sarebbero spazzati via.
La musica asseconda il grido disperato degli insinceri e accompagna l’odissea dei puri, alternando come di consueto momenti di pace ad esplosioni corali.
E sul finale un magnifico, lancinante assolo di chitarra di Steve Hunter sigilla un album certamente immaturo ed eccessivo, ispirato solo a tratti ma tutto sommato potente e rivelatore, e soprattutto meno riuscito solamente se considerato in rapporto ad altri futuri capolavori dell’artista.
"Che cosa accomuna i Genesis ai Black Sabbath? Il fatto che per un certo periodo entrambi i gruppi, come cantante, hanno avuto Dio" - Langres Livarot.
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Peter Gabriel - peter gabriel (1977)

Postby TRE » 23 Jan 2010, 13:53

ho una sorta di timorosa riverenza nello scrivere dopo tutto il fiume di belle parole che hai scritto.
fiume di parole che condivido in pieno.
condivido che stiamo parlando di un artista non ancora al suo apice ma già capace di emozionare come pochi.
PG1 rappresenta in pieno quello che i genesis hanno perso nel 1975: la voglia di pensare, di sperimentare, di mettersi in gioco facendo qualcosa di unico.
nel 1975 i genesis hanno perso quel "cuore che fa bum bum bum"
hanno perso l'anima.
hai davvero ragione su questo, roditore gigante [:)]
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Postby moonchild » 24 Jan 2010, 19:28

A volte il valore di un disco è più facile da comprendere quando il percorso musicale di un'artista si è pienamente compiuto.
L'esordio di Peter Gabriel solista allora, per tutto il bagaglio che si portava dietro, non poteva che essere considerato come una scelta di basso profilo e per alcuni versi persino imbarazzante ma il tempo ha dimostrato come la realtà fosse ben diversa.
Amo la parola progressive, anche solo a leggerla, eppure mi rendo conto come questo sostantivo se rapportato a Peter Gabriel ne limiti fortemente l'identità fin quasi a lederla ed è per questo motivo che ho sempre fatto fatica a considerare prog i suoi dischi fin da questo da te brillantemente illustrato.
Concordo appieno con la tua scelta di Here Comes The Flood come perla dell'album e dire che io ho adorato Solsbury Hill fin dal primissimo ascolto ma anche nella scelta dei singoli brani che preferiamo in un disco l'incedere del tempo s'incarica a volte di giocare un ruolo fondamentale e di farci cambiare idea.
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Postby marbian » 28 Jan 2010, 11:05

A ME MI sa tanto che Davide ha copiato da un libro.Il suo [;)]
Accattatevillo.[:)] ( e poi fotocopiatemelo [:D])
The past is a foreign country...They do things differently there...
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Postby Phoberomys » 28 Jan 2010, 11:37

Moon, mi fa specie che tu mi consideri così pezzente da copiare dal mio stesso libro. [;^(]

Ho copiato/incollato dal mio articolo per Musikbox! [:-D]
"Che cosa accomuna i Genesis ai Black Sabbath? Il fatto che per un certo periodo entrambi i gruppi, come cantante, hanno avuto Dio" - Langres Livarot.
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